Un viaggio tra le cime dell’Himalaya
Un intimo documentario sull’arrampicata e la cinematografia
C’è un’aura affascinante nel documentario ecuadoriano “Behind the Mist,” firmato da Sebastián Cordero e candidato agli Oscar, che racconta l’esperienza di scalare l’Everest. Da un lato, il gemellaggio tra alpinismo e cinema rivela affinità spirituali tra i due ambiti. Dall’altro, la texture visiva del film, realizzata con un’estetica lo-fi data dalle dure condizioni del terreno, svela strati nascosti di significato, offrendoci immagini che risultano riflessive sulla loro stessa creazione.
Iván Vallejo: un’icona dell’alpinismo
Il protagonista principale di Cordero è Iván Vallejo, il primo ecuadoriano a raggiungere la vetta dell’Everest senza l’ausilio dell’ossigeno. Dopo aver compiuto questa impresa nel 1999 (e di nuovo nel 2001), Vallejo spera di commemorare la sua scalata tornando in cima al mondo nel 2019. Naturalmente, invita Cordero a documentare il suo viaggio, ma il regista e il montanaro hanno idee opposte su cosa il film (e forse, i film in generale) dovrebbero essere.
Una ricerca filosofica
Questa ricerca assume una forma filosofica, poiché il regista di ”Europa Report” scambia una luna di Giove per le cime del Nepal, riprese con una fotocamera digitale DIY durante discussioni su tutto, da Camus a questioni familiari con Vallejo. Alla sua essenza, il film cattura scene del famoso alpinista contro le incontaminate e ghiacciate cime himalayane mentre si ricorda e spiega il suo punto di vista sull’arte e l’avventura, una linea che lentamente inizia a sfumare.
Simbolismo religioso e cicli di vita
Una forma documentaristica più tradizionale viene spesso interrotta da una lente vagante che cade, più spesso, sulle tradizioni religiose e iconografiche, come se Cordero cercasse l’illuminazione cinematografica nelle tradizioni induiste e buddiste della regione. A un certo punto, segue la fotocamera attorno a un’enorme ruota di preghiera cilindrica che ruota in una capanna, come se pregasse per risposte. Con ogni rivoluzione, la fotocamera entra in uno spazio oscurato, pieno di rumore visivo, prima di riemergere nella luce vicino alla porta dell’abitazione, come per raggiungere una forma di illuminazione temporanea prima di perderla di nuovo. Questo processo, che si ripete più volte nel film, incarna anche i cicli di nascita e rinascita delle suddette fedi bui e luminosi attraverso un cavo che porta a un tempio nepalese.
La qualità visiva: intimità e spontaneità
La qualità ruvida del film evoca intimità e spontaneità, anche se il senso del tempo tra Vallejo e Cordero sembra disorientato, come rispecchiato da riprese che alternano velocità aumentate e diminuite. Nel frattempo, campane dei templi suonano in sottofondo, tessendo insieme anche le immagini più disparate in qualcosa di ritmico. Le immagini e i dialoghi sono spesso montati in modo parabolico; si sovrappongono per enfatizzare la natura eroica dell’arrampicata su un’enorme montagna e della creazione dall’immaginazione, come se fossero nati dallo stesso impulso, dalla stessa curiosità.
Ricordando il passato attraverso l’arte e l’alpinismo
Cordero approfondisce questo concetto riflettendo le sue memorie con quelle di Vallejo. Come il famoso alpinista guarda indietro alla sua vetta da record del 1999 attraverso vecchie fotografie, Cordero pensa al suo film di debutto del 1999, “Ratas, ratones, rateros,” collegando i due uomini nel tempo incorporando fotografie del passato con riprese attuali in modo saggistico. La sua voce narrante, sebbene autorevole, lamenta la mancanza di successo di quel film. Sembra celare una ricerca di risposte su ciò che fa (e perché), mentre Vallejo mette in discussione la sua dedizione alla sua ossessione, riflettendo su cosa gli è costata.
La rivelazione del terzo atto
Più i due salgono, più il film sembra trovare se stesso. All’inizio, nessuno dei due uomini riesce a vedere il quadro completo. Le vette che Vallejo spera di vedere sono nascoste nelle nuvole, e l’ispirazione che Cordero spera colpisca sembra avvolta nella nebbia. L’alpinismo, come la realizzazione di film, è un salto di fede, e in “Behind the Mist,” queste cose sono guidate dallo stesso impulso di entrare in contatto con il proprio passato e spirito.
Un momento di armonia tecnica e spirituale
È difficile diagnosticare come si senta Cordero, sia nel periodo in cui il film è stato realizzato — la sua presenza è per lo più dietro la fotocamera, e quindi spettrale — sia, per questo, in retrospettiva. Ma c’è un distinto momento di armonia tecnica e spirituale nel terzo atto, quando l’anima del film viene messa a nudo, forse involontariamente. È un momento bellissimo di Vallejo che raggiunge una vetta innevata, così luminosa e riflettente che l’intera immagine risulta offuscata, tranne Vallejo stesso e alcune rocce vicine. La neve cade, velocemente e con forza, e la ridotta sfocatura del movimento della fotocamera di Cordero in questi momenti non solo causa un effetto tremolante, ma rende la nevicata illuminare Vallejo e la roccia in particolare, avvolgendoli in una nebbia vivente non vista altrove nell’inquadratura, come se questa persona e oggetto non imponenti fossero legati etereamente, attraverso il tempo e lo spazio.
Forse è un felice incidente, ma il film è così meticoloso nella sua ricerca che un momento come questo era destinato ad apparire, in cui tutto sembra giusto e sia Vallejo sia “Behind the Mist” acquisiscono perfettamente senso. Pochi documentari su imprese mozzafiato hanno raggiunto un tale livello di pace e calma.
Per scoprire di più sul film, visita Behind the Mist.