Alla scoperta di “Kill the Jockey”: un viaggio onirico tra identità fluttuanti
Introduzione a un’opera fuori dagli schemi
“Kill the Jockey”, l’ultimo lavoro del regista argentino Luis Ortega, rappresenta una sfida per chiunque tenti di riassumerlo con poche parole. Questo film, che ha vinto l’Horizons Award al San Sebastián International Film Festival e ha attirato l’attenzione anche al Venice International Film Festival, è un’opera che non si piega facilmente alle convenzioni narrative tradizionali. Ma cosa rende questo film così unico e quale percorso ha intrapreso per arrivare a tanto?
La trama: una trasformazione continua
Il film segue la storia di Remo Manfredini, interpretato da Nahuel Pérez Biscayart, un fantino la cui identità viene costantemente frammentata e ricostruita a seguito di un incidente durante una corsa. Traumi, droghe e alcol contribuiscono tutti a un’esperienza di trasformazione perpetua che sfida il concetto stesso di identità.
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Il titolo originale del film doveva essere “Cabeza de Piña” (Testa d’Ananas), ispirato da un senzatetto di Buenos Aires conosciuto da Ortega, che portava un cerotto a forma di ananas sulla testa. Tuttavia, il titolo ha subito una modifica per ragioni di marketing, sebbene quella visione surreale rimanga intrinseca all’essenza del film.
L’ispirazione: un richiamo letterario e le parole di Jack London
Ortega ha trovato ispirazione nel romanzo meno noto di Jack London, “The Star Rover”. In questo libro, un professore universitario in prigione scopre una via di fuga mentale indossando una giacca di compressione estremamente dolorosa, sperimentando ciò che sembra essere una serie di vite passate.
L’idea di una sequenza di identità vissute attraverso il dolore e la tortura ha risuonato profondamente con Ortega, che ha trasposto questa dinamica nel suo protagonista, Manfredini. “È in estasi perché, dice, ‘Non possono uccidere la mia immortalità'”, riflette Ortega, sottolineando come Manfredini si trasformi continuamente da fantino a drogato, da vagabondo a donna, e persino madre di bambini di strada.
Analisi tecnica: tra surrealismo e introspezione
“Kill the Jockey” non offre risposte facili sul concetto di identità. Al contrario, costruisce e decostruisce continuamente il suo protagonista, sfidando lo spettatore a seguire questo ciclo incessante di nascita e morte di nuove personalità. Questa struttura narrativa si riflette in una regia che abbraccia l’estetica del surrealismo, con immagini oniriche e simboliche che richiamano il lavoro di registi come David Lynch e Alejandro Jodorowsky.
La fotografia del film utilizza toni saturi e contrasti forti per enfatizzare i momenti di transizione di Manfredini, creando un’esperienza visiva che è al contempo disturbante e affascinante. La colonna sonora, intrisa di tonalità dissonanti e accordi eterei, amplifica ulteriormente l’atmosfera surreale del film.
Riflessioni sull’identità: ogni personaggio è una prigione
Ortega esplora temi complessi legati all’identità e alla libertà personale. “In un certo senso, ogni personaggio è una prigione”, afferma Ortega. “Qualunque personaggio costruisci, sei intrappolato in una qualche definizione di ciò che quel personaggio è”. Questo concetto si riflette nel percorso di Manfredini che, per liberarsi, deve “uccidere” ogni singola identità che assume.
Questa filosofia radicale trova eco in teorie psicologiche che vedono l’identità come una costruzione fluida, piuttosto che un’entità fissa. L’idea che per raggiungere una vera libertà sia necessario abbattere continuamente le etichette che ci vengono imposte è una tematica che risuona profondamente in un’epoca di crescente introspezione e auto-esplorazione.
Il percorso verso il riconoscimento: tra rifiuti e trionfi
Ortega ha dovuto affrontare numerosi rifiuti prima di trovare i finanziamenti necessari per realizzare “Kill the Jockey”. Nonostante il suo successo precedente con film come “Caja Negra” e “El Angel”, il concetto esoterico e sperimentale del suo nuovo progetto ha spaventato molti potenziali investitori.
Alla fine, la determinazione di Ortega ha avuto la meglio. La selezione e i riconoscimenti ottenuti nei festival internazionali hanno confermato il valore di un’opera che, pur essendo difficile da presentare, ha trovato il suo pubblico grazie alla sua autenticità e originalità.
Conclusione implicita: l’importanza di restare fedeli alla propria visione
“Kill the Jockey” è una testimonianza del potere della visione artistica e della perseveranza. Nonostante le sfide nel trovare supporto, Ortega è riuscito a creare un film che non solo esplora temi profondi e complessi, ma lo fa in un modo che è del tutto unico e distintivo. Questa opera suggerisce che, a volte, il percorso più difficile è anche quello che conduce alle creazioni più straordinarie.
Attraverso la sua struttura narrativa non convenzionale e l’approfondimento psicologico del suo protagonista, “Kill the Jockey” invita lo spettatore a riflettere su cosa significhi realmente essere se stessi in un mondo in continua evoluzione.